Testimonianze sui vini della Valpolicella
Secondo alcuni studiosi il nome “Valpolicella” deriverebbe da una voce latina che significa “Valle dalle molte (polys) cantine (cellae)”.
Le più antiche tracce di coltivazione della vite in Valpolicella risalgono al V secolo a.C.
In età romana il
vinum Rhaeticum, ampiamente descritto da Plinio come tipico delle colline veronesi, era apprezzato da poeti quali Virgilio e Marziale, che lo conservava per l'invecchiamento in una sua anfora, ed era il preferito dall'imperatore Augusto, come segnala Svetonio nei suoi scritti.
Della vite retica Plinio segnalò che tale pianta, molto feconda, preferiva il clima temperato e «aveva un tale amore per la propria terra che lasciava, nel trapianto in altri paesi, tutte le sue glorie perdendo le sue qualità» esprimendo in questo modo, già 2 millenni fa, quello stesso concetto di terroir che oggi è considerato prerogativa indispensabile di ogni grande zona vinicola.
Plinio il Vecchio, nella sua grandiosa opera «Naturalis Historia», dedicò il XIV libro alle uve ed ai vini più generosi d'Italia, e scrive: «... in Veroniensis iteri Retica, Falernis tantum postlata a Virgilio» cioè «nel Veronese (sono i vini) retici, i quali da Virgilio sono secondi solo al Falerno».
Plinio ci fornisce altri particolari sull'uva retica precisando, fra l'altro, che veniva servita nei triclini romani dell'imperatore Tiberio Cesare prima di altre uve passite «...ante eum Reticis prior mensa erat avis ex veroniensium agro...»
Risale invece al 463 d.C. un editto del Re longobardo Rotari , residente in Valpolicella, in cui si intimava a tutti coloro che volessero litigare, di farlo fuori dai vigneti, pena la condanna anche di colui che si trovava dalla parte della ragione, dimostrando così quale fosse l’amore per la vite.
Dopo la caduta dell'impero romano il vino veronese, preparato già allora con la particolare tecnica dell'appassimento delle uve su stuoie o graticci, si trova ricordato con il nome di
Acinatico. Notissima è l'ampia descrizione che ci ha lasciato Flavius Magnus Aurelius Senator, poi Cassiodoro, il colto ministro di Re Teodorico, il quale nel VI Sec., tesse forse la più bella lode al Recioto della Valpolicella, definendolo «regio per colore... denso e carnoso» ed ancora «porpora bevibile di soavità incredibile». E ancora: «vino puro dal colore regale e dal sapore speciale, cosicché tu pensi o che la porpora sia tinta dal vino stesso o che il suo limpido umore sia spremuto della porpora».
Ogni dubbio che si tratti di uno stretto parente dell'attuale Recioto svanisce quando, sempre dalla stessa prosa latina di Cassiodoro, apprendiamo anche i metodi di lavorazione di questo passito: «L'uva scelta d'autunno nelle vigne dei pergolati domestici viene appesa capovolta e si conserva nei suoi recipienti naturali. Si appassisce, non corrompe per la vecchiaia, e trasudando gli insipidi umori si addolcisce con grande soavità. Si conserva fino al mese di dicembre, finché la stagione invernale completa l'essiccazione, e in modo mirabile in cantina si ha un vino nuovo mentre in tutte le altre si incontra un vino vecchio».
Sarayna (1543) parla dei vini della Valpolicella «neri, dolci, racenti e maturi».
In tempi moderni lo scrittore americano Ernest Hemingway, che fu in Italia durante la prima guerra mondiale, cita il Valpolicella in uno dei suoi libri, “Di là del Fiume, tra gli alberi”, definendo il Valpolicella un vino «cordiale come un fratello con cui si va d’accordo».
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